mercoledì 27 luglio 2016

IL VELO FATATO

C'era una volta un pescatore che viveva felice in una misera capanna in riva al mare. Passava le sue giornate a pescare, poi andava a vendere il pesce in paese. La sua esistenza poteva sembrare monotona, perché non gli capitava mai nulla di straordinario; ma per lui erano cose straordinarie le albe color della madreperla, i meriggi col mare che sembrava uno specchio, i tramonti tutti rossi e d'oro, le notti tempestate di stelle, e perfino le burrasche, quando i nuvolosi neri sembravano abbassarsi fino a toccare la cresta schiumosa delle onde. Perciò egli trovava meravigliose tutte le sue ore e viveva felice e in pace con sé e con gli altri. Un mattino in cui, come al solito, era andato a pescare, mentre gettava l'amo nell'acqua, si guardò intorno e pensò: " Oggi è una giornata particolarmente splendida. Il mare è azzurro di cobalto, il cielo è terso e infinito, l'aria è purissima, il verde dei pini è smagliante". Mentre pensava così, sentì un profumo acuto e soave, che non avrebbe saputo attribuire a nessun fiore conosciuto, ma che era così forte da stordire. " Voglio vedere da dove proviene quel profumo così buono" pensò; e deposta la canna sulla riva, segui la scia del buon odore. Arrivato ai margini del bosco vide un magnifico velo appeso ai rami di un pino. Il profumo veniva proprio di là.
- Oh! - esclamò il pescatore. - Che meraviglia! Porterò a casa quel velo e lo conserverò come un tesoro a ricordo di questa stupenda giornata.
Subito si arrampicò sull'albero, stacco delicatamente il velo dai rami, poi ridiscese a terra. Distese con precauzione il velo sull'erba e rimase a guardarlo affascinato. Era davvero una meraviglia, il più bel velo che occhio d'uomo avesse mai visto. Intessuto di raggi di luna frammisti a raggi di sole, scintillava qua e là di lucentissime stelle; e nonostante fosse così largo da poter avvolgere una persona, era anche tanto sottile e leggiero che si poteva raccogliere tutto nel palmo di una mano. Dopo averlo ammirato a lungo, il pescatore lo piegò con precauzione e si avviò verso casa per riporlo; ma in quel momento dall'ombra di un pino sbucò una deliziosa fanciulla.

- Ehi, buon uomo, quel velo è mio! - gridò - E' il velo delle ninfe celesti. Ridammelo subito, per cortesia.
Senza nemmeno voltarsi il pescatore rispose:
- Allora è veramente un velo prezioso. Sarei uno sciocco, se te lo restituissi.

Poi si volse per vedere chi aveva parlato. La fanciulla che gli stava davanti era bellissima, una vera ninfa celeste. Aveva i capelli lunghi e neri sciolti sulle spalle; indossava un chimono che sembrava d'argento; ma in quel momento il suo viso era rigato di pianto.
- Ti prego, dammi il velo, altrimenti non potrò tornare fra le mie sorelle - supplicò con voce di pianto; e nel suo dolore sembrò anche più bella. (come i casino online)

Il pescatore non si staccava di contemplare la bellissima fanciulla, e a poco a poco il suo cuore si intenerì.
- Te lo restituirò se tu mi prometti di restare quaggiù con me a danzare le meravigliose danze del cielo - disse.

- Oh, si, danzerò per te; ma tu ridammi il velo.
- Fossi sciocco! Se te lo restituisco, tu voli subito in cielo e io non potrò mai più vederti, ne sono certo!
- No. Ho promesso che danzerò per te e lo farò. Nessun mortale ha mai veduto le danze delle ninfe celesti, ma tu lo vedrai. E sappi che le ninfe non mentono mai.
Il pescatore si lasciò pregare un altro poco, e infine restituì il velo. La fanciulla se ne avvolse e incominciò subito una danza meravigliosa. Il pescatore sedette sopra un tronco e la guardò rapito. Il velo ondeggiava intorno alla ninfa come sostenuto da mani invisibili, e intanto i suoi piedini si staccavano leggermente dalla terra; ella restò sospesa nell'aria, mentre dal cielo cadeva una pioggia di fiori stupendi. Il pescatore ben presto si accorse che i suoi timori erano fondati; vide con apprensione la fanciulla salire leggera nell'aria, allontanarsi, su, su, verso le cime del sacro monte Fugi. Voleva chiamarla ma non riusciva, voleva tendere le braccia, ma non poteva sollevarle. E pian piano la ninfa si dissipò nella nebbia che avvolgeva le pendici del Fugi, e le vette candide di neve. Non ci

fu più, all'orizzonte, che il meraviglioso panorama di sempre. Ma il pescatore sentiva nel cuore una gran pace e il ricordo di una viva felicità, come se si fosse appena svegliato da un bellissimo sogno. " E' davvero una giornata meravigliosa" penso. " Finché avrò vita non dimenticherò quella fanciulla soave". E ritornò a passi lenti alla riva del mare per riprendere la canna da pesca abbandonata poco prima sulla sabbia. 

I PRODIGI DI SCIRO

Molti e molti anni fa, in un piccolo villaggio del Giappone vivevano due vecchi sposi. Il marito, sebbene avanti con gli anni, coltivava il giardinetto, e ogni tanto andava sui monti a raccogliere un po' di legna; la moglie accudiva alla casa e preparava al marito delle buone minestre. Erano senza figli, e di questo si erano crucciati a lungo, ma avevano finito col rassegnarsi, cercando, in cambio, di farsi compagnia l'un l'altro. Un giorno il marito, secondo il solito, andò sulla montagna a raccogliere un po' di legna. Lavorò per tutta la mattina, poi sedette ai piedi di un albero per consumare la povera colazione. Mentre mangiava vide venire trotterellando dal bosco un cagnolino bianco, magro da far paura, che si mise seduto ai suoi piedi, seguendo attentamente con gli occhi umidi e intelligenti i movimenti delle mani che portavano il cibo alla bocca.
- Povera bestia! - esclamò il vecchietto - Chissà che fame hai! Tieni: mangia questo. È poco, ma non ho altro.
E diede al cane ciò che restava della sua colazione. Poi raccolse il fastello di legna e si diresse verso casa. Il cane gli si mise alle calcagna e lo seguì. Quando la moglie vide arrivare il cane si rallegrò moltissimo; lo accolse festosamente e gli preparò una buona zuppa, e una cuccia imbottita di vecchi panni vicino al camino.

- Questo cane non ha nome - osservò il vecchietto. - Come possiamo chiamarlo?
- Chiamiamolo Sciro - propose la moglie - è tanto bianco che questo nome è il più adatto. (Infatti "sciro" nella lingua giapponese significa: bianco). Il cane parve approvare quella scelta perché scodinzolò festosamente. Da quel giorno i tre vissero insieme e si volevano un gran bene; Sciro non si allontanava mai dai padroni e accompagnava il vecchietto dappertutto. Un giorno questi andò a zappare nel campiello e Sciro, secondo il solito, lo seguì. Quel campiello confinava con un altro che apparteneva a un vecchio avaro ed egoista. Dopo aver trotterellato su e giù, Sciro a un certo punto si fermò e incominciò a scavare nella terra abbaiando.
- Che cosa hai trovato? - gli chiese il vecchietto - Aspetta, che vengo.
E si avvicinò, ma con immensa sorpresa si accorse che Sciro, scavando, diceva in modo appena impercettibile:
- Scava qua, bau bau! Scava qua, bau bau!
Il vecchietto scavò, il cane raspò, e finalmente venne allo scoperto una vecchia pentola piena di monete d'oro. Il vecchietto felice, la portò a casa, ma l'invidioso vicino, che aveva visto tutto, si arrovellò per la gelosia. (una sorta di scommesse sportive)
- Dobbiamo farci prestare quel cane - disse alla moglie - Sciro troverà un tesoro anche per noi.
Infatti il giorno dopo l'avaro si presentò ai due vecchietti e disse:
- Io e mia moglie siamo soli. Dateci Sciro, affinché ci faccia un po' di compagnia.
Ai vecchietti rincresceva molto separarsi dal cane, ma non dissero di no.
- Poveretti! - risposero - Tenetelo pure per qualche ora.
Subito l'uomo afferrò Sciro per il collare, e il cane lo seguì malvolentieri. Non appena arrivarono nel campo, il vecchio lo prese per il collo e gli sfregò il naso in terra:
- Cerca subito un tesoro - intimò - Altrimenti ti farò assaggiare il mio bastone.
Sciro tentò di divincolarsi, ma l'uomo lo teneva sempre per il collo. Allora il cane cominciò a scavare. Ma raspa e scava, raspa e scava, fu portato alla luce soltanto un mucchio di cocci, tegole rotte, ossa e altre cose sporche. Allora il vecchietto inferocito afferrò il bastone e cominciò a menare gran colpi sulla schiena e sulla testa del cane che guaiva disperatamente. Udendo i lamenti di Sciro il padrone accorse.
- Non so che cosa ti abbia fatto il mio cane, ma perdonalo - esclamò - Ti domando io scusa per lui.
E raccolse fra le braccia il povero Sciro che, tutto dolorante, cercava di leccargli la mano. Ma il cattivo vicino aveva picchiato troppo forte, e nonostante le cure affettuose e premurose, il povero cane durante la notte morì. I vecchietti lo piansero molto, e il giorno dopo lo seppellirono in fondo al giardino e piantarono sulla sua tomba un germoglio di

pino. Da allora tutti i giorni andarono a visitare la tomba di Sciro e bagnavano con le loro lacrime il piccolo pino. Esso crebbe a vista d'occhio e in poco tempo diventò così grosso che non sarebbero bastate le braccia di tre uomini e circondare il tronco. Il vecchio commentava stupito:
- Questo non può essere che un prodigio del nostro Sciro. Certo nel tronco alberga l'anima sua.
- Penso anch'io che sia così - disse la vecchietta e un giorno propose:
- Ricordi quanto gli piaceva quel dolce fatto con farina di riso? Ebbene, perché con quel tronco tanto grosso non fai un mortaio affinché io possa preparare un dolce grandissimo da portare sulla sua tomba?

- Ottima idea, moglie mia! - approvò il marito; e in men che non si dica, tagliò il tronco e fece il mortaio.
Ma quando vi versarono il riso e incominciarono a pestarlo, si accorsero che il riso cresceva, cresceva. Crebbe tanto che infine traboccò, mentre ogni chicco, non appena toccava terra, si trasformava in una moneta d'oro. Il vicino che, spiando dalla finestra, aveva visto tutto, si presentò subito ai vecchietti e disse:

- Vorrei fare un dolce di riso per portarlo alla tomba di Sciro: mi prestereste il vostro mortaio?
- Con piacere; prendilo pure - gli risposero i due buoni vecchietti.
L'avaro prese il mortaio e tornò a casa. Ma quando incominciò a pestare il riso, si accorse che questo scemava di continuo, fin che non ne rimase più neanche un chicco, mentre i granellini caduti a terra si erano trasformati in brutti vermi. Allora il vecchio si infuriò, e impugnata una scure, fece il mortaio a pezzi, e li gettò nel camino. Il giorno dopo il buon vecchietto andò a farsi restituire il mortaio.

- L' ho bruciato - gli disse l'avaro. - Prendi la cenere, se vuoi.
Il vecchietto raccolse la cenere e tornò a casa; ma lungo la strada un colpo di vento ne fece volare via un poco, e dove si posava un bruscolino di cenere subito sbocciava un fiore. In breve tutti gli alberi intorno furono coperti di corolle come se fosse primavera. Il principe di quel paese, passando a cavallo, vide da lontano il prodigio.
- Sei tu che hai il potere di far fiorire gli alberi in inverno? - domandò - Sapresti far fiorire questo ciliegio?
Subito il vecchietto salì sull'albero, sparse un po' di cenere e il ciliegio fiorì. Il principe, ammirato, fece consegnare al vecchio un sacco di monete d'oro. Quando seppe del nuovo prodigio, l'avaro raccolse dal camino la poca cenere rimasta e s'avviò verso la strada dove il principe era solito passare.
- Io sono un fioritore! - gridò non appena lo vide. - Faccio fiorire gli alberi in pieno inverno. - Anche tu? - chiese il principe - Sei capace di far fiorire questo ciliegio?
Subito l'avaro salì sul ciliegio e gettò la cenere sui rami; ma i rami non fiorirono, mentre la cenere volò sul volto del principe e lo fece tossire e starnutire.
- Sia bastonato quell'insolente! - egli gridò sdegnato: ma l'avaro si gettò a terra piangendo. Pietà! Pietà! - supplicava - Sono stato malvagio e Sciro mi ha castigato.
Il principe lo perdonò e il vecchio avaro, pentito, divenne buono come i suoi vicini, e come loro visse a lungo felice sotto la protezione di Sciro. 

mercoledì 11 maggio 2016

IL PASSERO AMICO

C'era una volta un passerottino che viveva nel regno dei passeri, assieme al babbo, alla mamma e a numerosi fratellini. Era vispo, allegro, ardito, tanto che avrebbe voluto volare quando non aveva nemmeno le piume! Un giorno finalmente il babbo e la mamma lo aiutarono a compiere il primo voletto. Il passero era felice: sorretto dalle ali trepide e amorose dei genitori, poté librarsi nell'aria, sorvolare un pezzetto di bosco sfiorando lieve le cime degli alberi. Ritornò al nido inebriato.
- Basta per oggi - dissero i genitori.
Rimessi tutti i piccoli nel nido, babbo e mamma partirono per offrirsi una piccola merenda di zanzare dello stagno; ma non appena furono lontani, il passerottino si affacciò all'orlo del nido, e allargò le penne.
- Adesso volerò ancora, e da solo! - annunciò ai fratellini.
- Non farlo! Babbo e mamma lo hanno proibito! - gridarono gli altri passerotti spaventati. Ma il passerotto voleva dimostrare al mondo intero quando fosse audace e robusto. Infatti spiccò il volo e disparve nel bosco; ma non andò molto lontano, perché ben presto le sue alucce cominciarono a pesargli. Il cuore gli batteva pazzamente; il poveretto si sentiva precipitare e finalmente riuscì a posarsi sul ramo di un albero. Rimase là qualche tempo per riprendere fiato, poi si accinse a ritornare. Ma gli alberi sembravano tutti uguali: non riusciva più a riconoscere quello su cui era posato il suo nido. Tentò qualche voletto in giro, poi ritornò al ramo e gli occhi gli si colmarono di lacrime. Si era smarrito! Le sue zampette ormai erano indolenzite: non riuscivano più a reggerlo...il povero passerottino dovette abbandonare la presa, e cadde dal ramo spezzandosi un'ala. Che triste destino aspettava ora il povero passerotto! I lupi, le volpi, i gatti selvatici, i cani randagi che di notte si aggiravano numerosi nel bosco avrebbero fatto di lui un solo boccone! Quando sentì un passo avvicinarsi, chiuse gli occhi mandando un ultimo pensiero al babbo, alla mamma, ai fratellini...ma li riaprì tutto stupito sentendosi raccogliere da una calda mano, mentre una voce carezzevole gli diceva:
- Oh, povero piccolo, sei ferito? Non aver paura, perché ti porterò a casa con me, e ti curerò l'aluccia ferita.
Chi gli parlava così era un boscaiolo che ritornava dal suo lavoro. Avvolse il passerottino in un lembo della tunica e lo portò alla sua capanna. Quell'uomo aveva una moglie assai bisbetica;
quando vide il marito deporre sulla tavola il passerotto ferito, incominciò a protestare:
- Con tutto il lavoro che c'è, hai proprio tempo da perdere per catturare un passero! Lo sai bene che siamo poveri, e non possiamo mantenere una bocca in più!
- Stai tranquilla, moglie mia - rispose l'uomo con fermezza. - Il passerotto non ti darà nessun fastidio perché provvederò io a curarlo e a nutrirlo.
Infatti, preso un bastoncino di bambù, sistemò l'aluccia spezzata, la fasciò con una piccolissima benda, diede al passerotto qualche chicco del suo riso, e infine lo mise a letto in una bella scatolina di lacca imbottita di ovatta. Qualche giorno dopo il passerotto guarì, ma si era ormai tanto affezionato al boscaiolo che non volle lasciarlo più.
- Se vuoi, rimarrò sempre con te - gli disse - e sarò tuo amico.
- Oh come ne sarei contento! - esclamò, l'uomo che viveva solitario nel bosco e non aveva amici. - Potresti farmi compagnia mentre lavoro, e chiacchierare un po' con me, alla sera. E infatti fecero così. Da quel giorno il passerotto accompagnò il boscaiolo al suo lavoro; mentre egli svolazzava intorno e la sera gli si posava sulla spalla. Ma un giorno il boscaiolo dovette andare in città per vendere la legna, e non volle prendere con sé il passerotto, perché temeva che si smarrisse nel traffico, o che finisse fra le unghie di qualche gatto.
- Tornerò presto, amico mio - gli disse. - Tu intanto, resta qui buono buono.
Il passerotto promise, e quando l'uomo si fu allontanato, si appollaiò sul davanzale e rimase fermo e zitto a guardare la moglie che lavava alcuni panni in un mastello. La donna aveva posato sulla tavola una ciotola colma d'acqua in cui aveva sciolto dell'amido,

e il passerotto, incuriosito da quel liquido bianco che sembrava latte, volle vederlo da vicino e volò fino alla tavola, poi incominciò a zampettare intorno alla scodella.
- Và via passero! - intimò la donna sgarbatamente. - Bada che non ho altro amido, e se me lo rovesci la pagherai cara!

Ma il passero non ubbidì: andò a posarsi sull'orlo della ciotola, e in un baleno il disastro era fatto! Allora la donna inferocita, prese le forbici e tagliò la lingua al povero uccellino; poi lo getto fuori di casa. Il passero si trovò, tutto dolorante, solo in mezzo al bosco; ma essendo diventato adulto, sapeva orientarsi anche fra gli alberi sconosciuti, e poté ritrovare la via del regno dei passeri. Quando il boscaiolo rincasò e non vide più l'amico, si disperò, e non volle ascoltare le giustificazioni della moglie.
- Cercherò il mio amico, dovessi girare tutto il mondo - disse.
Prese il suo bastone e si incamminò: ogni tanto si soffermava a interrogare gli animaletti del bosco:
- Volete dirmi, signora lepre, dove si trova la casa del mio amico passero?
- Oltre il fiume, buon uomo.
- Di grazia, signor scoiattolo, dov'è la casa del mio amico passerotto?
- Oltre il monte, buon uomo.
Il boscaiolo camminò e camminò, e finalmente giunse al regno dei passeri e trovò il nido del suo amico passerotto. Babbo e mamma passero gli volarono incontro seguiti da uno stuolo di figli, e il buon uomo fu tutto felice quando vide il suo amico vispo e risanato; i suoi genitori infatti lo avevano curato con un'erba miracolosa. Si scambiarono abbracci e baci a non finire, poi la famiglia dei passeri imbandì un sontuoso banchetto in onore del boscaiolo. Quando il buon uomo fu per partire, i genitori gli consegnarono un cofanetto di legno prezioso e gli dissero:
- Tu sei stato molto buono con nostro figlio. Questo cofanetto è per te, ma non aprirlo fino a quando non sarai giunto a casa.
L'uomo promise, ringrazio e, dopo un ultimo abbraccio, fece ritorno alla capanna. Mise il cofanetto sulla tavola, ma non appena sollevò il coperchio, con suo grande stupore dal cofanetto uscì una pioggia di monete d'oro, collane di gemme, pietre preziose, e veli di seta. La moglie guardava con occhi sgranati, ed esclamò:
- Tutto per te, e per me niente?
- E' un dono del mio amico passerotto - rispose il boscaiolo.
- Allora andrò anch'io a farmi fare un regalo - disse la donna con astio. - Mi ha rovesciato la ciotola dell'amido e me la deve ripagare.
Subito si incamminò; lungo la strada chiedeva con arroganza agli animaletti del bosco:
- Ehi tu, lepre, dimmi subito dov'è la casa di quell'ingrato passero!
- Oltre il fiume, buona donna.
- Ehi, scoiattolo, dov'è la casa di quel passero maleducato?
- Oltre il monte, buona donna.
La donna camminò e camminò e sul far della sera giunse al regno dei passeri e alla casa del passero amico. Tutta la famiglia dei passeri le venne incontro e l'accolse con molti onori.
- Vostro marito, il boscaiolo, è stato molto buono con mio figlio - le disse babbo passero. - E anche voi meritate ogni considerazione.
Fece imbandire un sontuoso banchetto degno di una regina: la donna sedette a capotavola e le furono serviti cibi squisiti e bevande prelibate. " Chissà che cosa mi regaleranno, questi animali" pensava intanto la donna, e non vedeva l'ora di aver finito per vedere il regalo che le avrebbero fatto. Quando si alzò da tavola e si preparò a ripartire, i genitori del passero le presentarono due scatole: una di legno prezioso dipinto a colori smaglianti e l'altra di legno scheggiato.
- Tu sei stata buona e paziente con nostro figlio - le dissero. - Prendi dunque una di queste scatole, ma bada di non aprirla fino a quando non sarai arrivata a casa.
La donna prese in mano le due scatole e le soppesò: quella scheggiata era piccola e leggerissima; l'altra era grossa e pesante. "Chissà quanti tesori contiene la scatola più


grossa" pensò tra sé. " Non sono così sciocca da accontentarmi di quel brutto arnese!". E, senza esitare, scelse la scatola più grossa. I passerotti si accomiatarono da lei e l'accompagnarono per un lungo tratto di strada volando di ramo in ramo, poi ripeterono per l'ultima volta:
- Ricorda, non devi aprire la scatola per tutto il viaggio!
Quindi tornarono indietro. La donna prese la via di casa facendo mille congetture: " Se la scatola contiene gioielli, ne venderò alcuni per comperare una bella carrozza. Se contiene belle stoffe e veli di seta, mi abbiglierò come una principessa e andrò al ballo dell'imperatore. Se contiene monete d'oro, comprerò un bel palazzo in città, avrò servi e serve e sarò riverita come una signora. Ah, non posso più resistere: debbo proprio vedere che casa c'è dentro". Depose la scatola sull'orlo della strada e sollevò il coperchio. Ma invece di gioielli preziosi, monete d'oro, veli di seta, trovò una quantità di diavoletti neri come grilli che schizzarono via e le si avvicinarono saltellando.la donna fece un passo indietro impaurita, ma qualche diavoletto l'aveva già afferrata per la veste; altri le saltarono sulle spalle; uno le entrò entro addirittura nell'orecchio; un altro incominciò a tirarle i capelli e un altro ancora le diede dei pizzicotti. La donna ne gettava uno a terra,cercava di schiacciare un altro con il piede e agitava la sciarpa per allontanarli tutti; infine scappò terrorizzata. Ma i diavoletti si lasciarono all'inseguimento. La donna corse su per la collina, poi scese a precipizio; attraversò la risaia e giunse trafelata sulla riva del mare. Fortunatamente c'era un barca ormeggiata; vi balzò dentro e incominciò a remare con quanta forza aveva, volgendosi ogni tanto a guardare i diavoletti che danzavano sulla riva. Era tanta la sua paura che remò e remò fino a quando non scomparve all'orizzonte. Intanto il boscaiolo era rimasto solo nella capanna, e non sapeva come utilizzare le ricchezze contenute nel cofanetto. " Che me ne faccio dei veli di seta?" pensava. " Non potrei mai indossarli. E le stoffe trapuntate d'oro non sono adatte a un povero boscaiolo. Infine non mi servono nemmeno le monete: ciò di cui ho bisogno è qualcosa di meglio". Andò al villaggio e distribuì tutti quegli oggetti preziosi agli abitanti poveri: i veli di seta alle fanciulle da marito, le stoffe trapuntate alle madri di famiglia affinché le vendessero per comperare da mangiare ai loro bambini, le monete d'oro agli infermi e ai bronzi della pagoda. Poi si mise in cammino per il regno dei passeri dove fu accolto con mille feste. Là si costruì una capannuccia di tronchi profumati, e tutti i passeri collaborarono piantando fiori di ogni colore e piante rampicanti; il boscaiolo collocò nella capanna stuoie intrecciate, bassi tavolinetti e un bel lettuccio di canne di bambù. Vicino al capezzale mise la scatolina di lacca, per non separarsi mai, nemmeno durante la notte, dal ricordo di un'amicizia sincera, un tesoro che non avrebbe potuto acquistare neanche con tutto l'oro del mondo. 

mercoledì 4 febbraio 2015

IL GRANDE ISSUMBOSCI

Tanto tempo fa, viveva nel Giappone un bambino piccino piccino che si chiamava Issumbosci. Questo strano nome significa " Pollicino ", e infatti Issumbosci era alto e grosso proprio come un pollice, sebbene molto ben fatto e proporzionato. Aveva gli occhi neri tagliati a mandorla, i capelli raccolti sulla testa in un grazioso ciuffetto. I suoi genitori gli volevano bene, e quando andavano a lavorare nella risaia lo prendevano con sé e lo mettevano a sedere sopra un ramoscello o un sassolino raccomandandogli di non muoversi, altrimenti avrebbe potuto scivolare nell'acqua o cadere in qualche fossatello. Issumbosci era un bambino ubbidiente: stava fermo a guardare i genitori che lavoravano, e talvolta si riparava dal sole con una fogliolina, o si sdraiava su un petalo di fior di ciliegio per schiacciare un sonnellino. Intanto il tempo passava, anche per Issumbosci. Egli non cresceva mai, ma incominciava a ragionare come un ometto. Mentre stava seduto sul sassolino o sul ramoscello vedeva, nelle risaie vicine, gli altri ragazzi che si davano da fare per aiutare i loro genitori: chi stava chino sull'acqua per trapiantare il riso, chi affastellava gli steli mietuti, e chi infine li legava con una corda, li appendeva a un bastone sulla spalla e portava a casa il raccolto. Issumbosci invece non era capace di far niente. Non era nemmeno andato a scuola, perché i suoi genitori avevano paura che cadesse nel calamaio e restasse infilzato nella punta di un pennino. " Così non può andare avanti ! si disse un giorno. " Non posso passare il resto della mia vita a farmi vento con un petalo di fior di ciliegio. Poiché non sono capace di lavorare, vorrei almeno studiare e diventare sapiente. Ma le scuole più importanti sono tutte in città...bene. Andrò in città, e riuscirò un giorno a essere utile al mio prossimo anche se sono tanto piccolino." Detto fatto, scese dal ramoscello e si incamminò verso casa per chiedere il permesso al nonno, che era il capo della famiglia, e assomigliava a Issumbosci, anche se aveva la faccia piena di rughe, e una barbetta sottile e trasparente. Il nonno ascoltò con attenzione Issumbosci e approvò il suo progetto.
- Hai ragione - gli disse. - Fai bene a studiare perché che più sa, più vale. Un giorno potrai diventare un uomo importante anche se sei tanto piccino. E' meglio che tu vada in città per via acqua, navigando sul ruscello, lungo la strada potresti essere calpestato da qualche bufalo, o da qualche viandante. Prendi questa ciotola per il riso: ti servirà da barchetta; i bastoncini per il riso saranno i tuoi remi. Ma poiché potresti incontrare qualche pericolo è bene che tu sia armato. Eccoti un punteruolo che introdurrai in una festuca: così avrai la spada nella guaina. E ora ti benedico e pregherò gli dei per te.
Issumbosci si inginocchiò per ricevere la benedizione del nonno, poi ritornò alla risaia per avvertire i genitori. Anche i genitori lo benedissero e gli augurarono buona fortuna; quindi Issumbosci collocò la ciotola del riso sulle acque del ruscello, vi saltò dentro, impugnò i remi e partì. Il viaggio si svolse senza incidenti. Il ruscello ciangottava sui ciottoli e la sua voce gli faceva compagnia. Soltanto una volta Issumbosci fece uso delle armi, e fu quando un ranocchio verde e giallo, incuriosito dalla strana imbarcazione, si avvicinò per vedere meglio, saltando dall'una all'altra delle foglie di ninfea, e si fermò nel mezzo del ruscello impedendogli la strada.
- Scostati, che devo passare - ordinò Issumbosci.
- Cra, cra! - rispose il ranocchio in tono impertinente.
Allora Issumbosci sfoderò la spada e punzecchiò il ranocchio proprio sul naso. La bestiola spicco un salto e si tuffo nell'acqua provocando delle onde che fecero dondolare paurosamente la barca. Tuttavia, per fortuna, l'imbarcazione non si rovesciò, e Issumbosci poté riprendere il viaggio e giungere in città senza incidenti. Con i remi spinse la ciotola fino alla riva e scese a terra, poi entrò in città facendo bene attenzione a non essere schiacciato dai passanti. Come era bella la città, con case alte, pagode dagli strani tetti sovrapposti, viali di ciliegi fioriti, boschetti di salici piangenti, piazze larghe più di una risaia! Issumbosci camminava rasente ai muri ammirando tutte quelle meraviglie, ed era tanto affascinato dallo spettacolo che non si accorse che il sole tramontava e che la sera calava pian piano. Ormai le strade erano deserte; tutti erano rientrati in casa e le porte e


le porte e le botteghe erano chiuse. " Come faro " si chiese Issumbosci sgomentato. " Non vedo né un albergo né una locanda. Proverò a bussare a qualche porta. " e provò infatti, ma nessuno volle aprire, e neanche una finestra s'illuminò. " Pazienza " si disse allora. " Canterò, così mi passa la malinconia." Si appoggiò allo stipite di una porta e incominciò a cantare. Poco dopo la porta si aperse e apparve una fanciulla.
- Credevo che fosse un grillo a cantare - disse, rivolta a Issumbosci. - Entra, se no l'orco ti mangerà.
- Quale orco? - chiese Issumbosci entrando nella graziosa casetta.
- Un orco tutto rosso che sta nascosto nel boschetto del tempio.

- Io lo ucciderò con la mia spada - esclamò Issumbosci, e la fanciulla non rise, perché quel ragazzino tanto piccolo le piaceva.
Il giorno dopo andarono insieme al tempio, e Issumbosci, piccolo com'era, fu costretto a compiere salti prodigiosi per salire la gradinata di marmo. Quando furono in cima, l'orco sbuco dal boschetto. Era enorme, tutto rosso, aveva due corna sulla testa e le unghie simili ad artigli. Tutti fuggirono e la fanciulla svenne; ma Issumbosci si piantò a gambe larghe davanti al mostro.

- Mi fai ridere, gigante! - grido.
- E io ti annienterò moscerino! - rispose l'orco.
E ci provò, infatti, ma Issumbosci gli saltò sulla spalla e incominciò a punzecchiargli gli occhi.
L'orco cercava di afferrarlo, ma era come tentar di acchiappare un moscerino; Issumbosci saltellava da tutte le parti e l'orco finiva col lacerarsi con i suoi stessi artigli. Infine il ragazzino gli entrò in bocca, e scese fini alla pancia: la trapassò con il suo punteruolo e l'orco cadde a terra, morto. Issumbosci uscì dal buco assieme a un rivolo di monete d'oro. Intanto la fanciulla, che era rinvenuta, corse a raccogliere l'ultimo respiro dell'orco e lo gettò verso Issumbosci dicendo:
- Issumbosci, diventa grande!
Immediatamente il ragazzi incominciò a crescere e si trasformò in un magnifico giovane, che, felice, s'inginocchio davanti alla sua benefattrice. Da tutte le parti accorreva la gente, felice di essere stata liberata dal mostro e Issumbosci fu portato in trionfo. Più tardi egli imparò a leggere e a scrivere con i pennellini finissimi sulla carta di seta. Divenne un grande sapiente, sposò la bella fanciulla, e visse a lungo con lei in una casetta circondata dai ciliegi e dai mandorli in fiore. 

mercoledì 6 agosto 2014

HANACO DAL GRANDE CAPPELLO

Tanto tempo fa viveva in Giappone un Samurai ricco e potente, e generoso e buono, il quale avrebbe potuto essere felice accanto alla sua giovane e bella sposa se la sua casa fosse stata allietata dal sorriso di un bambino. Ma il cielo non aveva mandato bambini e il Samurai si sentiva più povero del più povero coltivatore di riso. Un giorno andò alla pagoda con la moglie; si prostrarono con la fronte sul pavimento e pregarono fino a sera, chiedendo con tutto il cuore agli dei il dono di un figlio; poi tornarono a casa un pò consolati. La preghiera non fu vana: qualche tempo dopo nacque una bambina graziosissima, che fu chiamata Hanaco. Da quel giorno i due sposi furono veramente felici. Circondarono la loro creatura delle cose più bella e delle premure più affettuose, e spesso sedevano presso di lei sospirando:
- Oh, la nostra piccola, la nostra cara Hanaco!
La bambina, da parte sua, meritava tanto affetto e tanta ammirazione, perché cresceva buona, ubbidiente e bella. Era anche molto intelligente, e a pochi anni sapeva già sonare diversi strumenti alla perfezione e la grazia di un usignolo. Ma purtroppo tanta serenità non era destinata a durare: Hanaco aveva appena compiuto dieci anni, quando il suo babbo morì. La mamma pianse tanto che si ridusse l'ombra di se stessa, e un giorno non poté più alzarsi da letto. Allora chiamò a sé Hanaco e le disse:
- Figlia mia cara, sento che sto per lasciarti perché vado a raggiungere il tuo babbo; ma non disperarti, perché la nostra protezione non ti mancherà mai. Ti auguro di trovare nella vita chi ti ami e ti protegga, quando sarai sola. Adesso inginocchiati affinché io ti dia la mia benedizione, e compia ciò che gli dei mi hanno comandato.
Hanaco si inginocchiò piangendo e la mamma le posò sul capo un cofanetto chiuso, e su questo, un cappellone di paglia a forma di cupola, ma tanto grande che le scese quasi fino al mento.
- Non levarlo, tesoro mio - aggiunse la mamma teneramente - e un giorno saprai perché ho fatto questo.
La benedisse ancora e spirò. Per dire la verità, Hanaco cercò subito di levarsi quel cappellone che le dava fastidio, ma per quanti sforzi facesse non vi riuscì. Allora si rassegnò a tenerlo, e andò al funerale della mamma, che fu messa a riposare accanto al Samurai. Intanto la gente, che già aveva guardato con molto stupore la strana acconciatura dell'orfanella, incominciò a sorridere, e poi a ridere, e infine a farsi beffe di lei. I ragazzi la segnavano a dito e la inseguivano per la strada chiamandola " cappellona", mentre gli uomini e le donne si voltavano a guardarla motteggiandola e battendosi il dito sulla fronte. La bambina era sempre più avvilita. " Perché rimango in questo paese pieno di gente cattiva, dove non c'è più nessuno che mi voglia bene? " si disse. " Voglio andarmene di qui: la protezione del babbo e della mamma mi seguirà dappertutto." Detto fatto, senza nemmeno pensare a mettere un indumento in un fagottino, né qualche moneta nelle tasche, si avviò per la prima strada che vide. Cammina, cammina, dopo aver attraversato villaggi e campagne, giunse in riva a un fiume. Sedette sulla sponda e fissò l'acqua che fluiva in turbini e vortici. Questo spettacolo le fece girare la testa e a un tratto ruzzolò nel fiume; ma non andò a fondo perché il cappellone la tenne a galla e venne trascinato dalla corrente. Un barcaiolo che passava di là con la sua barca, vide quella strana cupola galleggiare e pensò che si trattasse di un cappello. " Mi farebbe proprio comodo" disse tra sé. " Ora lo prendo." Si sporse sull'acqua puntellandosi sulla pertica, agguantò il capello, e lo trovò molto pesante, tanto che fece fatica a issarlo sulla barca. Quale fu la sua meraviglia quando vide che, sotto il capello, c'era una bambina che pareva quasi legata al grande copricapo! Ancora sbigottito, il barcaiolo spinse la barca fino a riva e Hanaco poté scendere a terra e riprendere il viaggio. Cammina, cammina, mentre percorreva una bella strada attraverso ricche risaie, vide venire una splendida carrozza in cui sedeva un vecchio signore che era il principe di quel paese. Incuriosito per lo strano aspetto della giovane il principe ordinò di fermare i cavalli e fece cenno alla fanciulla di avvicinarsi.


- Chi sei? - domandò. - E perché porti sulla testa quello strano cappellone di paglia?
- Lo porto perché non posso levarmelo - rispose Hanaco.
E raccontò la sua storia. Il principe si commosse.
- Povera piccola - disse - vieni al mio palazzo. Vivrai sotto la mia protezione e nessuno oserà disturbarti.

Fece salire Hanaco accanto al cocchiere e insieme ritornarono al palazzo: Hanaco fu affidata alla servitù e incaricata di preparare l'acqua per i bagni. Tutti i giorni attingeva al pozzo sacchi e secchi d'acqua, faceva bollire caldari, e riempiva tinozze e tinozze. Spesso era tanto stanca che sedeva su una panchina di marmo nel giardino con le mani abbandonate sulle ginocchia, e talvolta si metteva a piangere ricordando quando era stata felice nel palazzo del potente Samurai suo padre, circondata da servi pronti a ogni suo cenno. Ora, invece, i servi la maltrattavano e la sollecitavano a sbrigare il fretta il suoi lavoro perché ce n'era già dell'altro pronto. Soltanto il figlio più giovane dei sovrani le dimostrava un po' di compassione e le diceva qualche parola buona. A poco a poco i due giovani presero l'abitudine di frequentarsi e ogni giorno sedevano sulla panchina sotto il ciliegio e chiacchieravano insieme senza stancarsi. Ma i servi, invidiosi, riferirono tutto al principe che si adirò tutto al principe che adirò moltissimo e chiamò il figlio minore:
- Non voglio più che tu frequenti quella piccola intrigante - disse. - Domattina la caccerò via.
- Ma io voglio bene ad Hanaco - esclamò il giovane angosciato. - Se la caccerete via, che ne sarà di lei? Vi prego, concedetemela in moglie!

A quelle parole la principessa madre diventò rossa di collera e disse:
- Tu vuoi sposare quella serva, quel piccolo mostro? Come avresti il coraggio di presentarti ai ricevimenti con una ragazza ignorante come lei?
- Io le voglio bene e se voi la caccerete me né andrò di casa.
A queste parole la principessa si calmò un po', e decise di aspettare alcuni giorni, sperando di riuscire a trovare una soluzione migliore. La soluzione le fu suggerita dal più scaltro dei suoi ministri.
- Altezza - le consigliò - organizzate il più sontuoso ricevimento che abbiate mai dato. Invitate tutte le vostre nuore e le dame più intelligenti e colte della città e invitate anche Hanaco. Sfigurerà a tal punto che lo stesso principe né resterà disgustato.
- Ottima idea! - approvò la principessa madre.
Giunta la sera della festa, quando le signore cominciarono ad arrivare con i loro ventagli di seta e gli abiti trapuntati d'ora, Hanaco si rifugiò sotto l'albero del ciliegio e cominciò a pregare. Poco dopo giunse anche il giovane principe che accorgendosi che Hanaco pregava, giunse le mani e pregò con lei. Allora accadde il miracolo: il capello di Hanaco volò via, e il bellissimo volto della fanciulla apparve in tutto il suo splendore. Anche il cofanetto volò a terra e da esso uscì un rivolo splendente di monete d'oro. Gli abiti di Hanaco divennero sontuosi, i suoi capelli neri, lunghi e lisci, le scesero con grazia lungo le spalle. Il principe s'inchinò, le offerse la mano e la condusse nella sala del ricevimento. Quando gli invitati videro quella meravigliosa fanciulla, rimasero ammutoliti. Hanaco salutò amabilmente tutti, poi prese uno strumento a corda e lo sonò alla perfezione; cantò con la dolcezza di un usignolo e danzò come una farfalla sui fiori.
- Ma è un prodigio! - esclamarono tutti.
- E' una ninfea celeste!
- E' la figlia del più ricco e potente Samurai del Giappone - disse un vecchio che l'aveva riconosciuta.
Fu così che Hanaco trovò chi l'avrebbe protetta e amata per tutta la vita; e i vecchi principi furono felicissimi di dare il loro consenso alle nozze. 

venerdì 27 luglio 2012

URASCIMATARO'

C'era una volta, in Giappone, un pescatore che si chiamava Urascimatarò. Egli era grande e forte, ma forse appunto per questo, amava molto le creature piccole e deboli, e specialmente gli animali. Un giorno, mentre passeggiava sulla riva del mare, vide un gruppo di ragazzi che si agitavano e gridavano. Si avvicinò, e vide che stavano giocando con una tartaruga, ma giocavano in modo crudele e cattivo, e tormentandola e stuzzicandola in tutti i modi. Fingendo di ridarle la libertà, e quando la tartaruga s'incamminava faticosamente verso il mare, subito le erano addosso e la rovesciavamo sul dorso divertendosi a vederla agitare le zampette all'aria e facendole il solletico sul muso. Poi ricominciare da capo.
- Vergogna! - gridò Urascimatarò. - Come potete divertirvi a tormentare così quella povera bestia?
- E tu che c'entri? - risposero i ragazzi, facendo sberleffi. - La tartaruga è nostra. L'abbiamo catturata noi e possiamo fare quello che ci pare.

Urascimatarò rimase male, ma vedendo che con quei monelli le parole non servivano, su frugò in tasca e vi trovò alcune monete.
- Sentite, - disse allora ai ragazzi - Volete vendermi la tartaruga? Vi do tutto il denaro che ho: accettate?

I monelli non se lo fecero dire due volte: presero le monete e corsero verso il più vicino negozio di dolciumi. Urascimatarò raccolse la tartaruga e la portò delicatamente fino al mare, poi la mise nell'acqua dicendo:
-Va', povera bestiolina, e un'altra volta cerca di non farti catturare più.

La tartaruga fece un piccolo cenno di saluto, poi scomparve nella profondità del mare. Urascimatarò la seguì con lo sguardo fin che poté, poi volse le spalle e tornò a casa. Era rimasto senza soldi e senza cena; infatti il denaro che aveva dato ai monelli avrebbe dovuto servirgli per comperarsi da mangiare; ma era tanto contento per la buona azione compiuta che non sentiva neanche la fame. Passò del tempo. Un giorno, come al solito, Urascimatarò scese in mare con la sua barca e incominciò a pescare. A un tratto gli parve di udire una vocina sottile che lo chiamava per nome:
- Urascimatarò, Urascimatarò!
Si guardò intorno sorpreso, ma non vide nessuno. C'erano soltanto i gabbiani e le onde, e sulla riva alcune piante palustri con dei fiori a grappolo. " Avrò sognato" si disse; e incominciò lentamente a ritirare la rete. Ma ecco che, tra il mormorio delle onde, la vocina si fece udire di nuovo:
- Urascimatarò! Urascimatarò!
Questa volta sembrava provenisse dal basso, e il giovane si sporse dalla sua barca e scrutò l'acqua. Vide disegnarsi un'ombra che saliva dal fondo del mare e finalmente giungeva alla superficie. E una grossa tartaruga, che guardò il giovane e chinò la testa in segno di saluto.
- Urascimatarò - gli disse - non mi riconosci? Io sono la tartaruga che hai comperato qualche giorno fa per liberarla dai suoi tormentatori, anche a costo di rimanere senza cena, ho riferito la tua buona azione al potente Drago, il re del mare, ed egli ti è riconoscente quanto me. Vorrebbe averti suo ospite per un po' di tempo. Monta sulla mia groppa e io ti condurrò da lui.
Urascimatarò rimase interdetto. Come avrebbe potuto scendere in fondo al mare senza annegare? Ma la tartaruga, notando la sua perplessità, si affrettò a rassicurarlo:
- Sei sotto la protezione del re del mare e non devi temere di niente. Sali sulla mia groppa e non avere paura.
Allora Urascimatarò, incuriosito ubbidì; scese dalla barca mettendosi a cavallo sul dorso della tartaruga, e subito s'inabissò. Non annegò, infatti; anzi, l'acqua non gli dava nessun fastidio; gli sollevava soltanto morbidamente i capelli. Intorno c'era una luce che dava un aspetto magico a tutte le cose: alle alghe, ai coralli, alle meduse iridescenti, ai pesci rossi e rosati, che agitavano le pinne e le code così larghe e fluttuanti che sembravano veli di

seta. Urascimatarò non si stancava di guardare, e intanto la tartaruga scendeva sempre più fino a quando non si posò sul fondo, proprio davanti al palazzo del re del mare. Era un palazzo meraviglioso, fabbricato sopra uno scoglio dalle venature di madreperla. Aveva i tetti dalla punta rialzata, ricoperti di maioliche verdi e ornati di conchiglie. Una scalinata di marmo conduceva alla porta d'ingresso.
- Entriamo nel palazzo del potente Drago - disse la tartaruga.
S'incamminò per prima e Urascimatarò la seguì guardandosi intorno a bocca aperta. Due grossi pesci spada, che facevano la guardia, incrociando le spade in segno di onore; poi due lunghe file di pesci rossi gli vennero incontro inchinandosi rispettosamente e lo scortarono fino alla sala del trono. Il potente Drago, re del mare, sedeva su un trono di corallo tempestato di perle, e aveva un aspetto terribile, ma anche molto maestoso. Le zampe dagli artigli poderosi, la lunga coda mobile come fiamma, la grande bocca armata di candide zanne, avrebbero terrorizzato chiunque, ma non Urascimatarò che sapeva di non aver nulla da temere. Egli s'inginocchiò, e il Drago scese dal trono per venirgli incontro.
- Urascimatarò - gli disse - io desideravo tanto conoscerti perché ho saputo quando sei stato generoso con la povera tartaruga prigioniera. Il tuo cuore gentile merita un premio, e io l' ho preparato per te; te lo consegnerò quando tornerai sulla terra. Ma ora ti prego di essere mio ospite e di visitare il mio regno. Vedrai ciò che occhio umano non ha mai potuto vedere.
- Ti ringrazio molto, potente Drago - rispose Urascimatarò inchinandosi - Sarò volentieri tuo ospite per un po' di tempo. Ma non lodarmi, perché non ho fatto che il mio dovere.
- Ti affido alle meduse mie damigelle - continuò il Drago - e alla tartaruga tua amica. Che il nostro amato ospite sia rallegrato e servito nel miglior modo possibile!
Detto questo il Drago si ritirò; Urascimatarò fu fatto sedere su una poltrona di corallo imbottita di alghe. Poi nella sala si svolse uno spettacolo tutto dedicato a lui. Prima i pesci rossi e azzurri, dalle code fluttuanti come veli, eseguirono una graziosa danza saettando su e giù, mentre i pesci martello battevano su gusci di conchiglie ritmando il tempo. Poi alcune coppie di pesci spada tirarono di scherma con molta bravura. Un polpo dalle lunghe braccia eseguì con destrezza divertentissimi giochi di prestigio, infine alcune meduse dai colori iridescenti intrecciarono un minuetto agitando graziosamente i loro tentacoli, mentre un complesso di salmoni, che costituivano l'orchestra, soffiava nelle conchiglie. Urascimatarò guardava rapito. Non aveva mai visto nulla di più gentile e divertente, nemmeno da parte dei migliori giocolieri e delle migliori danzatrici del Giappone. Inoltre la sala era adorna di fregi d'oro e d'argento e un lampadario di diamanti a cascatella spandeva una luce iridescente che traeva riflessi d'argento dalle piccole onde create dai ballerini. Terminato lo spettacolo, Urascimatarò fu condotto nella sala da pranzo dove era imbandita una lunga tavola. Cibi squisiti gli furono serviti in piatti di conchiglie, e vini prelibati gli furono versati in bicchieri di madreperla. Infine fu condotto a dormire su un letto di soffici alghe, rivestito da lenzuola di bisso. Per molti giorni Urascimatarò visse in fondo al mare e, accompagnato dalla tartaruga, lo visitò in lungo e in largo. Vide praterie coperte di alghe e fiorite di strani animaletti che sembravano anemoni dai mille colori, visitò grotte di marmo scintillante e adorne di ostriche aperte, con perle bianche, nere, rosate, vide navi e barche affondate, riviste di muschio vellutato, galeoni dai fianchi squarciati che lasciavano sfuggire cascate di monete d'oro; vide forzieri cerchiati di ferro che contenevano tesori.
- Non raccogliere quegli scrigni - suggerì la tartaruga. - Contengono tesori, ma lo scrigno che ti darà il potente Drago re del mare conterrà un tesoro più prezioso ancora.
- Che cosa conterrà? - chiese Urascimatarò incuriosito. - e quando me lo darà?
- Quando ritornerai sulla terra. Ma adesso resta con noi ancora un po'!
ma le parole della tartaruga avevano destato nel giovane il ricordo e la nostalgia del suo paese. Un giorno chiese udienza al potente Drago.
- Mio signore - disse inginocchiandosi - io vorrei ritornare sulla terra. Il tuo regno è magnifico. La tua ospitalità deliziosa, ma...


- Vuoi andartene, Urascimatarò? - chiese il drago con voce accorta. - Forse non ti trovi bene qui? Io avrei voluto tenerti con me sempre.
- Qui mi trovo benissimo - si affrettò ad assicurare Urascimatarò calorosamente. - ma sulla terra c'è la mia casa. Non è ornata di gemme come la tua, ma è pur sempre la mia casa. E ci sono anche mio padre e mia madre. E c'è...- Urascimatarò s'interruppe.

Non osava dirlo, ma c'era anche una bella fanciulla dai capelli neri pettinati con due crisantemi sulle tempie: abitava in una casetta di fronte alla sua, e ogni tanto lo guardava e gli sorrideva...
- Va bene, Urascimatarò - disse il Drago. - non sia mai detto che io contravvenga a un tuo desiderio. Torna dunque sulla terra: la tartaruga ti accompagnerà. E prendi anche, come mio regalo, questo cofanetto: ma ricordati che non dovrai aprirlo per nessuna ragione. Così dicendo il Drago gli porse un cofanetto intarsiato di madreperla, che aveva una serratura d'oro.

- Per motivi che non posso spiegarti, sono costretto a consegnarti anche la chiave - aggiunse il Drago. -Ma non aprire lo scrigno.
Urascimatarò promise; prese congedo dal re del mare e da tutti gli altri ospiti del palazzo, e salutato dai pesci spada di sentinella, risalì sul dorso della tartaruga. Questa incominciò a nuotare verso l'alto, e a poco a poco il giovane sentì le acque diventare più tiepide, e finalmente rivide il sole!

- Addio Urascimatarò - disse la tartaruga deponendolo sulla riva. - Non ti dimenticherò mai.
Si tuffò nell'acqua e scomparve, mentre Urascimatarò s'incamminava verso il paese respirando a pieni polmoni la tiepida e profumata aria della terra. Ma ...il paese non sembrava più il suo paese, e la casa non sembrava più la sua casa; la capannuccia era diventata una bella villetta abitata da gente forestiera. Il babbo e la mamma non c'erano più. Soltanto la casetta dove viveva la bella fanciulla bruna dai crisantemi sulle orecchie c'era ancora; e sulla sua veranda stava seduta una vecchina dai capelli bianchi. Urascimatarò le chiese notizie dei genitori.

- Li conoscevo - ammise la vecchina. - Abitavano qui di fronte e avevano un figlio pescatore. Ma sono morti moltissimi anni fa.
- Come vi chiamate? - chiese Urascimatarò.
- Fior di Loto.

Era proprio il nome della bella fanciulla! Dunque, tanto tempo era trascorso senza che lui se ne accorgesse, mentre viveva in fondo al mare? Che fare, ora? Tutto turbato Urascimatarò si diresse verso la spiaggia e incominciò a passeggiare solo e sconsolato. La cosa era spaventosa, ma forse c'era un rimedio chiuso nella cassettina. E' vero che il re Drago gli aveva raccomandato di non aprirla mai, tuttavia era meglio forse il disubbidire. Girò la chiavicina d'oro e il coperchio si sollevò. Dal cofanetto uscì un leggiero fumo bianco che avvolse Urascimatarò e poi si dissipò. Quando dileguò Urascimatarò si accorse di essere diventato improvvisamente vecchio, vecchio come Fior di Loto. Era coperto di rughe, calvo; dal mento gli scendeva una barba bianca; si appoggiava ad un bastone con la mano grinzosa. Re Drago gli aveva fatto il dono dell'eterna giovinezza, e lui se l'era lasciata sfuggire con un alito di fumo. Era stato meglio o peggio? Restò pensieroso a guardare il mare eternamente giovane, su cui i gabbiani volavano con le larghe ali distese... 

mercoledì 27 luglio 2011

LA PUZZOLA CATTIVA

Abitavano un tempo in una casetta ai margini del bosco due vecchietti. Erano molto buoni e perciò tutti gli animali della foresta erano loro amici. La città era molto lontana e i due vecchietti, non più arzilli come un tempo, non potevano recarsi a fare le compere quotidiane; questo però non li preoccupava affatto, perché sapevano che il cibo non sarebbe mai mancato: infatti ogni mattina all'alba trovavano davanti alla porta della loro casetta le provviste necessarie per la giornata. I piccoli castori correvano tutta la notte per il bosco e ammucchiavano fascine di legno che deponevano poi in bell'ordine sulla soglia. Gli scoiattoli si arrampicavano su e giù per gli alberi in cerca di noccioline; i caprioli e i ghiri coglievano frutta succosa, mentre gli uccellini con le tartarughe stappavano foglie dai cespi di insalata e le formiche portavano a uno a uno i chicchi di grano. Anche le api volavano di fiore in fiore e poi deponevano il miele in una minuscola ciotola posta sul davanzale. Al sorgere del sole i vecchietti aprivano la porticina della casa, ringraziavano gli amici del bosco e si informavano della salute dei loro piccoli. Poi la vecchietta entrava in cucina, e poco dopo il filo fumo che usciva da comignolo annunciava agli animaletti che le ciambelle croccanti erano pronte. Ogni tanto i due vecchietti ricevevano la visita dei figli che provenivano dalle lontane città con le mogli e i nipotini. La casa risuonava allora di voci festose e tutto il bosco era in fermento. Quando c'erano tante persone, gli animaletti dovevano lavorare più del solito. Correvano qua e là affaccendati senza guardare nessuno e il ronzio delle api nei prati fioriti si faceva più intenso; non c'era corolla di fiore su cui non posassero lievi i laboriosi insetti. La cui ciotolina del miele infatti non bastava più e le povere api dovevano riempire vasi e vasi...la visita ai nonni era la gioia più grande dei bimbi: attendevano impazienti il sorgere del sole, scendevano silenziosamente dal loro lettino, e correvano nel bosco per raggiungere i loro amici animali: uno si divertiva a tirare il codino a un cerbiatto, l'altro accarezzava il muso peloso di un orsacchiotto, un altro ancora si divertiva a giocare a nascondino con una lepre...Anche le madri erano felici perché potevano lasciar giocare da soli i loro monelli senza preoccuparsi che si facessero male: là nella foresta c'erano tante piccole bambinaie sempre all'erta, pronte a intervenire in caso di pericolo. La vita nel bosco sarebbe stata completamente felice, se ...c'è sempre un " Se", purtroppo, che guasta anche le cose più belle. Questo " Se" era costituito dalla signora puzzola, egoista, bugiarda e dispettosa, che tormentava tutti e provava un gran piacere nel vedere gli altri angustiati o contrariati. Naturalmente nessuno le voleva bene, e non era mai stata invitata a mangiare le ciambelline in casa dei nonni. Aveva però una gran voglia di assaggiarle, avendone sentito decantare da tutti gli animali del bosco; e un giorno in cui percepì uno stuzzicante profumo che veniva proprio dalla casettina felice, rinunciò per un attimo a tutte le sue macchinazioni, perfino a quella di fare un dispetto alla signora volpe, e saltò sul davanzale della finestra. La nonna stava preparando una grossa torta; udendo bussare ai vetri si volse e disse:
- Ah, sei tu, signora puzzola? Che vuoi?
- Nonnina, ho freddo: lasciami entrare, per favore, vorrei riscaldarmi.
- Povera bestiola! - disse la nonna commossa. - Non mi sembra, veramente, che faccia freddo, con questo bel sole; ma entra e vieni a riscaldarti.
La puzzola balzò subito dentro, e la nonna le preparò un cuscino vicino alla stufa.
- Che buon odore, nonnina - disse la puzzola. - E quanta fame ho!
- Mi spiace, non posso darti nemmeno una briciola di questo dolce perché domani arriveranno i miei nipotini. Ma se vuoi, eccoti una ciambella avanzata da stamattina.
- A me la roba avanzata, eh? - gridò la puzzola impermalita. - Voglio quella torta! La voglio!
Corse verso la tavola, e poiché la vecchia si parò davanti alla torta, afferrò un coltello e glielo piantò nel cuore. Poi prese il dolce e fuggì. La nonna però non era morta; la punta del coltello si era conficcata in un libricino di preghiere che ella portava al collo. Quando il marito tornò a casa. La nonna gli raccontò l'accaduto, e insieme decisero di dare una bella lezione alla cattiva bestiola. Subito la nonna si stese sul letto e chiuse gli occhi,

mentre il marito, seduto presso di lei, cominciò a piangere e a lamentarsi. Gli animali del bosco udirono i suoi gemiti e accorsero in frotta.
- Nonnino, che hai? Che cosa ti è successo?
- Oh, la mia povera moglie! Qualcuno l' ha uccisa e io sono disperato!

Gli animaletti inorridirono, poi cominciarono a piangere anche loro. Il bosco divenne tetro, perché non vi risuonavano più né gorgheggi, ne trilli. Accorse la lepre, la più furba di tutti, e abbraccio stretto stretto il vecchio per dimostrargli la propria simpatia; ma il nonno incominciò a parlare a bassa voce, e gli occhi della lepre scintillarono di gioia e di furberia. Prese congedo dal vecchio, poi corse nel bosco; si fece prestare la grossa gerla di compare orso e il piccolo cesto di fratello scoiattolo; spalmò di pece lo schienale della gerla grande, poi andò a cercare la puzzola.
- Io vado al di là del monte a prendere un tesoro - le disse. -Vuoi venire con me?
- Un tesoro? - esultò la puzzola. - Ben volentieri!
- Ho qui pronte due gerle - aggiunse la lepre, - ma ti avverto che la più grande è spalmata di pece.
- E' un vecchio trucco! Esclamò la puzzola in tono beffardo. - Dici così perché vuoi prenderla tu - E se la infilò sulle spalle.
Quando incominciarono a salire il monte era quasi mezzogiorno e il sole dardeggiava. La lepre, con la sua minuscola gerla, saltellava allegra e vivace, mentre la puzzola, schiacciata dal peso dell'enorme gerla, ansimava e sudava. Quando giunse sulla cima, era esausta. Fece subito per deporre a terra il pesante fardello, ma non vi riuscì.
- Toglimi questa gerla di dosso, signora lepre. Sono veramente sfinita!
La lepre ubbidì; afferrò la gerla e la staccò dal dorso della compagna, ma, con la gerla, vennero via pezzetti di pelle e di pelliccia!
- Ohi, ohi! - gridava la puzzola. - Che male! Non hai un po' d'unguento da darmi?
- Certo, te lo spalmo subito.
E la lepre lo spalmò, ma quell'unguento bruciava come il fuoco.
- Ahi, ahi! - ricominciò a urlare la puzzola. - Dove hai preso questa medicina infernale?
- Ma è lo stesso unguento che hai inventato tu! - rispose la lepre con aria candida. - Lo adoperi sempre, quando curi le ferite dei nostri amici.
La puzzola restò interdetta. Era vero; aveva proprio inventato lei quell'unguento, preparato con semi di senape; e lo spalmava sulle scorticature degli animaletti del bosco, per divertirsi alle loro smorfie e a loro strilli.
- Voglio tornare a casa! - piagnucolò.
- Bene - disse la lepre. - Scendiamo a valle e attraversiamo il fiume per far più presto. Tu cammina con comodo, mentre io vado a cercare una barca.
Si avviò veloce e in un batter d'occhio raggiunse la riva del fiume. Aiutata dai castori, fece una piccola barchetta brutta ma molto solida; poi con il fango, ne modellò un'altra più grande e la ornò con pietruzze colorate. Quando la puzzola arrivò, tutta dolorante, la lepre era già nella barchetta.
- Svelta, sali con me! - disse.
- Perché dovrei salire su quella brutta barca? - replicò la puzzola impermalita. - E questa di chi è?
- Non lo so - rispose la lepre. -Forse lo sanno i castori, che mi hanno dato questa. Proviamo a chiederglielo.
- Sarebbe un perditempo inutile - protestò la puzzola, che non vedeva l'ora di trovarsi sulla barca ornata di pietruzze. - La restituiremo al ritorno.
E timorosa che la lepre insistesse nel suo proposito, spinse la barca in acqua e vi balzo dentro. Ma la barca era fatta di fango, e l'acqua del fiume la impregnò. Il fondo divenne molle, poi si staccò, mentre anche tutto il resto cadeva a pezzi. In men che non si dica la puzzola cattiva si trovò con l'acqua alla gola.
- Aiuto! Affogo! - incominciò a urlare. - Fammi salire sulla tua barca.
- Eppure è una brutta barca! - obbietto la lepre tranquillamente.
- Non importa! Non importa! Reggerà anche il mio peso!


La lepre allora sporse una zampa e afferrò la puzzola. Ma prima di issarla a bordo, volle aggiungere qualche altra cosa alla dura lezione.
- La colpa è tua, se hai scelto la barca di fango. Era più bella, è vero, ma tu ti sei sempre comportata da vanitosa ed egoista.

- Non lo farò più1 - singhiozzo la puzzola. - Sono proprio pentita, lo giuro! Ma tienimi fuori di qui!
- Non devi essere più tanto cattiva, con i nostri amici del bosco. Ora hai provato che cosa si sente con la tua infernale pomata sulle ferite. Eppure il dolore degli altri ti divertiva tanto!

- Pensa se anch'io avessi il cuore duro come lo avevi tu! - concluse la lepre. - Quando mi divertirei, adesso, alle tue lacrime!
Ma poi si decise e tirò la puzzola nella barca, perché la bestiola tremava tutta e stava per affogare. La lepre distese la puzzola a prua e cominciò a remare. " Io non lo avrei fatto" pensava intanto la puzzola. " Mi sarei riposata lasciando faticare gli altri e divertendomi un mondo. Per fortuna la lepre è diversa da me! E' proprio una gran disgrazia, incontrare un cattivo". La lepre remò fino alla sponda, poi preparò un giaciglio di foglie alla puzzola, affinché potesse asciugarsi al sole e riposarsi un po'. " E' una gran fortuna incontrare un buono" continuava a pensare la puzzola. " Voglio diventare buona anch'io. Voglio che tutti siano contenti di avvicinarmi e di strare con me ". Quando si fu riposata, ripresero il viaggio verso il bosco. Una scimmia che si dondolava sopra un ramo salutò la lepre, e getto appena un'occhiata alla puzzola. Ma questa si accorse che quel ramo era molto fragile e si piegava pericolosamente, minacciando di spezzarsi da un momento all'altro.

- Attenta, comare scimmia! - gridò - Il ramo si sta rompendo!
La scimmia rise.
- Proprio a te, devo credere! - rispose. - Sei sempre stata bugiarda con tutti, perciò...
Ma in quel momento il ramo si spezzò e la scimmia cadde sulla foglie che si stendevano ai piedi dell'albero.
- Toh, avevi detto la verità! - esclamò rialzandosi e guardando la puzzola con occhi stupefatti. - Chi lo avrebbe immaginato?
La puzzola continuò il cammino a testa bassa. " Ecco come sono ridotta" pensò. " Non mi credono nemmeno quando dico la verità. Eppure l' ho voluto io, con le mie infinite bugie precedenti" proseguirono il viaggio e ben presto giunsero in vista della casetta dei nonni. Ne uscivano pianti e lamenti. "Anche questo l' ho voluto io! " si rammaricava la puzzola col cuore gonfio. " Se non fossi stata così golosa, egoista e collerica, quella casa adesso sarebbe piena di risate e di gioia. E invece..." In quel momento la lepre disse:
- Io vado a vegliare un poco la cara nonnina, e a confortare, se posso, il nonno. Ma una veglia funebre non è uno spettacolo divertente e perciò tu puoi tornare a casa.
- Perché? - esclamò la puzzola. - Credi che non sia capace anch'io di compiere un'opera buona? Tanto più che è stata colpa mia, se la nonnina è morta.
Entrò a testa bassa fra lo stupore di tutti gli altri animali, ma quando vide la nonna immobile sul letto, con gli occhi chiusi, non poté più trattenersi e corse ad abbracciarla piangendo lacrime amarissime. La nonna, sentendo il volto bagnato di lacrime brucianti, spalancò gli occhi.
- Sei proprio tu che piangi comare puzzola? - esclamò sbigottita.
- E' risuscitata! È risuscitata! - incominciarono a gridare gli animaletti saltando e abbracciandosi per la gioia.
- Comare puzzola, le lacrime del tuo pentimento hanno prodotto il miracolo - aggiunse il nonno.
Allora tutti fecero mille feste anche alla puzzola che, in un certo senso, era risuscitata pure lei. Da quel giorno la bestiola fu buona con tutti, e quando si mangiavano le ciambelline era sempre invitata e le veniva riservato il posto d'onore.